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PERCORSI
LA LINGUA CALABRESE
/ TEATRO
ARCHITETTURA / BECKETT
/ DRAMMATURGIA
CONTEMPORANEA / LABORATORI
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Risale al 1990, al
teatro municipale di Mosca, il primo esperimento teatrale
nel quale Cauteruccio
utilizza il dialetto
calabrese in uno spettacolo su Pitagora. In U juocu
sta finisciennu, insieme al professor John Trumper,
Cauteruccio propone la traduzione in dialetto calabrese di
uno dei più famosi testi del ‘900, Finale di partita di
Samuel Beckett, riscuotendo grande successo in tre anni di
tournèe nazionale. Altri lavori seguono questa scelta
linguistica negli anni successivi fino a quest’ultima
trilogia. Panza, crianza e ricordanza è un progetto in cui
il regista attore mette insieme tre dei suoi più recenti
poemetti scritti in calabrese, M’arricuordu,
Parru sulu, Mi fa fame, per un omaggio alla sua
terra dalla quale trentadue anni fa si trasferì a Firenze.
Si tratta di un progetto di teatro/concerto nel quale
Cauteruccio compie un viaggio dentro il ricordo, dentro la
visionarietà, dentro il suo corpo estremo. I tre momenti
dello spettacolo si avvalgono delle musiche di Voltarelli
eseguite con la sua magica fisarmonica e la sua potenza
vocale accompagnate dalle percussioni di Gennaro De Rosa,
per raccontare di un corpo estirpato, mobile e immobile,
reale e visionario, esteriore e interiore, sazio e affamato,
lucido e folle. Nel 2007, con Picchì mi guardi si tu si
masculu, un nuovo monologo scritto in calabrese, vengono
indagati, attraverso la sessualità, ancora una volta
iconflitti di questo “corpo estremo”. E Cauteruccio si
inoltra nel paesaggio degli istinti, in cui ricostruisce gli
sguardi che si impigliano, i malesseri, i piaceri, le
esclusioni, le negazioni, la voluttà, descrivendo con
autenticità un’esperienza vitale per un artista e il suo
destino. Cauteruccio dunque recupera la sua lingua
originaria alla ricerca di una impossibilità drammaturgica
determinata dalla marginalità esistenziale dell’essere
contemporaneo. Qui l’artista sceglie il proprio corpo di
artista e mette in scena se medesimo come corpo unico
dell’opera, come vittima e carnefice, come soggetto e
oggetto dell’esperienza totale dell’arte in senso
poetico/sentimentale e fisico/patologico. Così facendo,
lascia permeare la malattia della fame con la rabbia
dell’incomunicabilità e il dolore e la riscoperta della
memoria in un’azione leggera, segnata dalle note di una
vocalità ormai antica.
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